Anche gli schermi possono pregare? (Terza e ultima parte)

Terza e ultima parte di una conversazione in atto tra Giacomo Lilliù e Davide Nota attorno al romanzo Lilith. Un mosaico (Luca Sossella Editore, 2019) e al concerto per voci e interferenze PPSS a cura del Collettivo ØNAR. Si parla, in questa parte, di preghiera, di eresia e di grotte montane.

GL: Hai parlato di cristianesimo e buddismo. Mi viene in mente quando, riflettendo sul frammento 41 (“Non la vita vissuta ma la vita pensata è la vita”), me ne parlasti come di una sorta di koan. Come ti collochi nei confronti di queste tradizioni? Collocheresti Lilith o la tua autorialità nel canone occidentale?

DN: Non la colloco ma si trova nella zona occidentale del paesaggio, in direzione di un confine dove le tradizioni riconvergono. Si tratta, in fondo, della stessa immagine delle tubature. Qui si disvela il livello più occulto del testo, leggibile a partire dalla dedica nascosta nel capitolo terzo a Margherita Porete, beghina e mistica arsa sul rogo nel 1310, dopo avere scritto Lo specchio delle anime semplici, ponte tra occidente e oriente, canone dei canoni il cui tempo (ne sono certo) è il futuro. Il discorso esoterico che si sviluppa sotto le linee della novella esplicita può essere ripercorso a partire da questa indicazione. Anche la grotta della Sibilla appenninica, centro del mandala lilithiano, ospita nel suo antro il cerchio concentrico di una preghiera. Fu luogo di riti mitraici e successivamente covo di una comunità di “fraticelli”, un gruppo cristiano legato allʼeresia del “Libero spirito” che proprio sul monte della Sibilla venne sterminato nel XIV secolo. Ho dedicato molti anni allo studio delle fonti che talvolta, in maniera digressiva, compaiono aprendo voragini temporali a partire dalla vicenda di Petra o che ad essa giungono da un tempo molto lontano. Mi interessava, alla radice, lʼenigma oracolare come metodo di meditazione e capovolgimento non della letteratura ma della percezione della realtà. La frase non chiusa, o contenente diverse biforcazioni interpretative, come invito allʼavventura interiore. Per Bataille questo dadaismo arcaico (in Lilith è la Sibilla che scrive le sue parole su foglie, lasciandole disordinare dal vento) è una tecnica di liberazione dallʼipnosi del linguaggio, la cui logica ci impone una visione separata del soggetto e dellʼoggetto. Tecniche di liberazione è anche il titolo di un recente libro di scrittura esperienziale di Mariangela Guatteri, a cui è dedicato un frammento del testo. Certamente non ci è possibile uscire dalla separazione originaria in termini di volontà ma possiamo “intraprendere un lungo cammino dentro la foresta”, come dice la voce appellandosi ai “Grandi spiriti del Sud” nel frammento 14, durante il rito casalingo del fungo. Tutto ciò che accade in Lilith è sostanzialmente ordinario (nulla che non possa accadere in una canzone trap) ma ho voluto spiegare (o più che altro capire) come dietro a tale ordinarietà si muovessero galassie e antiche divinità sepolte che chiedono di reincarnarsi.

GL: Ma reincarnarsi vuol dire anche morire. Tuttavia mi pare che lʼincoraggiamento di Lilith sia volto a recuperare costantemente nuovi io, non ad abolire lʼio nella materia del mondo per staccarsi da una vicenda biografica illusoriamente costruita.

DN: Le abolizioni sono intrise di volontà, e cioè di quella virile impotenza propria della tesi cui si oppongono. Camuffare la volontà in una variazione frastica non è il punto. E lʼio non è la prima persona singolare. Nel frammento 54 si dice: “Perché egli è l’accolto, non l’abolito. Supera il volto in un vasto soggetto.”.

GL: Ovviamente la psicanalisi la lasciamo da parte. Ma può un “vasto soggetto” non essere “una prima persona singolare”? Perché non mi pare che in generale la tua indagine muova verso una sorta di riscoperta dellʼidealismo romantico.

DN: Ti rispondo con un frammento inedito, che prosegue questo discorso: “Appunti per un programma politico: dimettersi dalle regioni della dissomiglianza e mettersi in cammino verso il paese della vita. (P.S. Questo cammino riguarda la percezione.)”. Il “paese della vita” è quel luogo, quello stato speciale, in cui per Agostino lʼuomo trascende le dinamiche che regolano le regioni della “dissomiglianza”, vale a dire il mondo e la vita comunemente intesi. Nella “dissomiglianza” il soggetto si percepisce come un individuo separato e in conflitto con il resto da sé. Il mondo gli appare dunque come un oggetto estraneo, da uccidere o da cui essere ucciso, o con cui scendere a patti stipulando, nel migliore dei casi, soddisfacenti trattati di non belligeranza. Abbandonando questa forma di pensiero difensivo e offensivo ci si incammina verso le porte del “paese della vita”, uno stato psichico in cui lʼonda raggiunge un tale grado di autocoscienza da dissolvere la percezione del sé nella coscienza simultanea del fiume. Questo non vuol dire abolirsi in quanto evento singolare poiché i due livelli coesistono come cerchi concentrici. Vuol dire piuttosto espandersi. Questo accade, certamente, in taluni momenti di estasi, ma occorre che questo accadimento estatico si estenda in una forma coerente di vita. Uscire dalle catene della realtà condizionata, dagli automatismi del giudizio e del controllo, dalla meccanica del dominio e della sottomissione. Solo aprendo, scardinando, la percezione a questa seconda dimensione potremmo vivere una vita non dico priva di “mancanza” ma in cui la “mancanza”, al di là di ogni puerile ottimismo, si faccia motore di un amore conoscitivo, di un desiderio di contemplazione del mondo che siamo e non solo in cui siamo. Questo “paese” è stato nei millenni immaginato come paradiso. Ma è ora di fare un passo ulteriore, uscendo dalle trame lineari e entrando nel regno della simultaneità. La trinità, dice Margherita Porete, è lʼallineamento dei tre astri che sono il corpo (individuale), lo spirito (individuale) e lʼanima (che trascende lʼindividuo ma di cui lʼindividuo è parte). Il nome di Dio oggi è impronunciabile perché attorno al suo suono sono state cucite troppe vesti mondane, trame e favole pedagogiche. Oggi Dio dovrebbe denudarsi. Solo manifestandosi nella sua invisibilità può essere di nuovo visto. Da un altro frammento inedito: “Il paradiso non è un al di là della vita ma uno stato percettivo da raggiungere ora. La piena comunione con la visione. Non occasionale, non evasiva, neppure estetizzante o selettiva e tanto meno contenutistica, ma continua. Ma occorre dimettersi dal mondo per toccare il mondo. Questʼepoca ha sete di una vasta eresia.”.

GL: Eresia. Trinità e threesome. Dopo l’episodio della lezione universitaria sull’amatoriale, ritroviamo Petra a Firenze, spettatrice della Trinità di Masaccio (frammento 49). Diventerà poi essa stessa protagonista di una Trinità amatoriale rovesciata nell’ultimo frammento, l’amplesso di lei, Guedi e Jan. Sappiamo già da prima che questo non è l’episodio conclusivo dell’intreccio per Petra, che infatti pre-vediamo svanire in una “dissolvenza di puro bianco” (frammento 62). Invece mi piacerebbe spostare l’attenzione su Giorgio, che sempre nel frammento 99 è inginocchiato “di fronte al display della videocamera. Guardare, senza inchinarsi, aveva più volte detto. Ne era proprio sicuro?” Nel cubismo vorticante del romanzo, già ci sembra di aver intravisto Petra/Lilith di fronte a una possibile trasfigurazione del duo Guedi-Jan in drago bicefalo: “Chiudeva gli occhi per sentire le lingue del giano che la solcavano. Non mi basta, diceva come parlando al suo dio. Chiedo che si esprima con più chiarezza. Così serrava gli occhi cercando di intuire le fattezze del drago che si manifestavano.” (frammento 59). Ma quindi è vero che “Giorgio uccide il drago con la forza del pensiero”? Lo trafigge con i pixel del display? O Giorgio è costretto a uccidere il drago perché non potrà mai esserne divorato (neanche volendo), protetto/intrappolato com’è dalla sua corazza fatta di pensiero implacabilmente logico? Lo dipingi più volte “epicamente”, ad esempio come Prometeo dilaniato dalle “arpie del pensiero” (frammento 45). Ma poi resta sempre in disparte dell’azione, sempre comprimario, sempre vertice di supporto del triangolo che egli traccia con Jan e Petra, mentre questi due sono accomunati, attratti dal richiamo del disfacimento nel sole. Chi è Giorgio, questo outsider senza speranza, ultimo voyeur del ménage à trois/mélange adultere de tout?

DN: Giorgio è quanto dici ma è anche il contrappunto di Petra, il solo occhio che non la spia ma la osserva. Il suo essere in disparte rispetto agli eventi di cui Petra è attrice e regista lo rende, paradossalmente, il solo personaggio della storia che si posiziona in quel cono dʼombra, in quel fuori di scena cui la novella anela. Nelle sue contraddizioni (è anche lui un nodo complesso di fattori incoerenti e non una funzione narrativa lineare) si tratta del personaggio più umano e forse anche umanistico della storia. Penso alla scena del McDonald, a quellʼistinto di solidarietà persino politica nei confronti dellʼaltro, alla sua autocoscienza critica della separazione, e penso soprattutto al fatto che durante la caduta psichica di Petra, in ospedale, è la sola presenza che resta al suo fianco. Qui Giorgio pensa, parla e parzialmente demistifica la cosmogonia lilithiana. Lui osserva Petra come unità e non solo come sublimazione in Lilith. Il drago che neutralizza, è vero, è anche il giano evocato altrove da Petra. Questo giano bifronte non è lʼoggetto sessuale in sé ma il desiderio della deriva che lo precede. San Giorgio uccide il drago ma anche Teseo il Minotauro, da cui Arianna secondo Giorgio Colli desidera essere uccisa. Il capitolo ospedaliero ribalta infine le posizioni: Lilith, con la sua sete di materia, è dispersa in elucubrazioni concettuali mentre Giorgio le indica, nominandoli, gli oggetti del mondo nella loro presenza elementare: le lucertole. Ma questa non è una morale. Non cʼè nessuna morale. Giorgio è una delle forze in atto e Petra e Giorgio sono un Tao, unʼunità vitale e psichica. Ciascuno rovescia lʼaltro e rovesciandolo lo salva. Ma questo rovesciamento salvifico non può avere fine. Sono, a conti fatti, lo stesso personaggio. Infatti vedono entrambi la trinità.

GL: Ci stiamo per imbarcare in un nuovo viaggio, con PPSS_Mosaico_020, che altro non è se non la messa in atto di quell’esperienza da remoto di cui parlavamo nella seconda parte dell’intervista. Mi sembra che ciò testimoni nuovamente il “pensiero in cammino” di PPSS, cammino a cui ora si aggiungono spettatori, o per meglio dire compagni di viaggio, destinatari di un sentiero digitale disseminato da lettere in bottiglia che li condurranno verso un rito web. Una caccia al tesoro per scoprire la propria maschera. “Ciascuno rovescia l’altro e rovesciandolo lo salva” mi hai appena detto. Nel labirinto di PPSS_Mosaico_020 non c’è un Minotauro da cui fugge Arianna, ma forse piuttosto molti esploratori che vengono chiamati al centro di esso. Mittente e ricevente, sono anch’essi lo stesso personaggio? Solo se combaciamo anche noi autori con chi ci legge o ascolta o guarda (come dici di Petra e Giorgio), è allora che si apre a tutti una piccola chance miracolosa di vedere la Trinità?

DN: La visione del sacro la escluderei in un contesto pubblico soprattutto se questo contesto è inquinato da predisposizioni culturali. Ritengo più probabile vedere Dio in fila alle poste che non ad un evento di teatro o di letteratura dove tutti sono nella meccanica ordinaria dellʼeducazione scolastica e della decifrazione dei linguaggi. Certamente un rito può essere collettivo ma non pubblico quando permette lʼoblio di sé. Ma questo oblio deve essere reale e non una simulazione. Perché ciò accada occorre essere davvero lontani dal culturale. Il progetto PPSS ha avuto secondo me due grandi momenti di luce: il primo video-concerto al teatro di Montecarotto nel 2018, autentico delirio taoista, irripetibile, e la lettura montana nellʼestate del 2019. Qui il momento estetico più profondo a mio avviso si è verificato prima dellʼevento, quando decidemmo di spostare la struttura di legno in cui si sarebbe svolto il reading da un piano allʼaltro del campeggio. Allora si formò una specie di processione delirante, eravamo tutti trafitti dalla luce, pubblico, attori e organizzatori, una marmaglia cieca e informe, controluce, che sbandava, schiacciata da questa sfera di legno gigante, intrasportabile, che si agganciava ai rami degli alberi. Fu un momento davvero esaltante. La forza di questo atto consisteva nel suo essere del tutto imprevisto, un fuori programma assoluto che attraversava i corpi presenti come un messaggio di puro tatto. Lʼintera lettura a seguire ha goduto di questa energia ma i contenuti erano già stati trasmessi. Cosa accadrà a partire dal labirinto di PPSS_Mosaico_020 non è possibile prevederlo. Forse anche qui la sua chance miracolosa non avverrà durante lʼevento ma in un suo cono dʼombra. Cosa sia lʼombra del digitale ancora non lo sappiamo e non sappiamo neppure se questʼombra effettivamente esista. Credo sia importante che PPSS continui a essere un momento di verifica dei linguaggi votato al più totale imprevisto, senza orizzonti né aspettative che non siano il puro desiderio di gioco e la più selvatica e fanciulla sete di avventura. Sarebbe molto bello, ad esempio, se fuoriuscendo dalle gabbie della videochat della desktop performance potessimo proiettarci tutti quanti sul monte della Sibilla e senza dirci una sola parola accendere un fuoco. Sarebbe arte? No, sarebbe qualcosa di molto più grande.

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